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Addio a James Senese, figlio della guerra e del jazz

Il sassofonista napoletano, icona del Neapolitan Power, si è spento a 80 anni: una carriera lunga sessant’anni tra jazz, identità e rivoluzione culturale.

Addio a James Senese, figlio della guerra e del jazz

Cultura Queer, Musica e teatro

29 Ottobre 2025

Di: Nicola Garofano

È morto a Napoli, all’età di 80 anni, James Senese, dopo essere stato ricoverato a fine settembre all’ospedale Cardarelli di Napoli per una grave infezione polmonare. Sassofonista, compositore e figura cardine del Neapolitan Power, la sua pelle nera e la sua musica hanno raccontato un’intera generazione di outsider. Il ragazzo “figlio della guerra”, nato nero in una città che allora non sapeva cosa fosse la diversità, se n’è andato portando con sé una delle voci più autentiche e dolorosamente vere della musica italiana. Era figlio di una donna napoletana e di un soldato afroamericano. La sua pelle, la sua differenza, la sua storia, tutto in lui era musica e ferita, ritmo e riscatto. Raccontava spesso che da bambino si difendeva con i pugni, finché non ha imparato a difendersi con le note del suo sax: «La libertà l’ho pagata su questa mia pelle nera».

I funerali si terranno domani giovedì 30 ottobre alle ore 12:00 nella Parrocchia Santa Maria dell’Arco in Piazza Madonna dell’Arco 8 a Miano, nel quartiere dove l’artista ha vissuto tutta la vita.

Nato il 6 gennaio del 1945, lo stesso giorno dell’Epifania, James era il simbolo di un’Italia che non sapeva ancora guardarsi allo specchio. A Miano, il suo quartiere, i bambini lo prendevano in giro, gli adulti lo indicavano come “diverso”. Ma lui, con una fierezza che sembrava già blues, trasformò l’emarginazione in arte. Fu sua madre a mostrargli, un giorno, la copertina di un vecchio disco di John Coltrane: «Guarda, Jè, è come tuo padre». Da quel momento, il sax divenne il suo corpo, la sua voce, la sua identità.

Con Mario Musella e Franco Del Prete fondò gli Showmen, una delle prime band italiane a suonare soul e rhythm & blues. Poi nacquero i Napoli Centrale, e con loro una lingua nuova, che mischiava dialetto e jazz, dolore e spiritualità. Era il suono di una città sporca e viva, dei vicoli e della rabbia, della gente che lavorava e sognava. Con brani come Campagna e ‘A gente ‘e Bucciano, James e Franco diedero voce agli ultimi, ai braccianti, agli emigrati, ai “diversi” di ogni tipo.

Foto di Riccardo Piccirillo

James Senese non ha mai avuto paura di dire la verità. La sua musica era resistenza, denuncia, poesia. Diceva di sentirsi “un outsider in una terra di outsider”. La sua storia personale, di bambino bullizzato, di ragazzo emarginato, di artista mai completamente riconosciuto dal sistema, era diventata parte integrante della sua arte.
«Non dovrei essere qui, ma all’Apollo di New York. Però so’ nato nire, e questa cosa me l’hanno fatta pesare per tutta la vita». Eppure, da quella diversità, James aveva tratto una forza irripetibile. Con Pino Daniele, Tullio De Piscopo, Rino Zurzolo, Joe Amoruso ed Ernesto Vitolo diede vita a una delle stagioni più luminose della musica napoletana. La superband di Vai mo’ cambiò per sempre la percezione della città e del Sud: Napoli diventava cosmopolita, libera, nera, jazz.

Senese è stato un musicista totale, ma anche un uomo di principi inflessibili. Non ha mai strizzato l’occhio al potere, né ceduto al compromesso: «Ho fatto musica per gli ultimi, per quelli che si spaccano la schiena e non hanno voce. Io sono nato nella loro stessa terra: sono uno di loro».

Il suo sax ha raccontato la Mattanza e il sangue, l’amore per la città e la delusione per un mondo che cambia senza capire. Nel suo ultimo album, Chest nun è ‘a terra mia (2025), c’era tutta la sua amarezza: «Siamo da sempre tutti contro tutti e questo perché il male e il bene non possono convivere. Io lotto da quando sono nato, sembra che le cose siano cambiate in meglio, ma è falso, e in questi tempi che stiamo vivendo ce ne stiamo rendendo conto. Dovremmo cercare le dimensioni del nostro io più profondo, che portano alla connessione con l’anima, che non percepiamo ma che sono li ad aspettarci. Se apriamo di più i nostri cuori e i nostri occhi avremo la possibilità di trovare quella felicità che non riusciamo a vedere. Sto comunicando qualcosa che io sento e vedo finalmente, e che per tutta la vita ho cercato. Dio ha creati, ma noi l’abbiamo ucciso. Siate forti con i vostri sentimenti e grati con chi riesce a darvi una scossa; Questo è amore!».

Con lui se ne va un pezzo di Napoli autentica, quella che non chiede permesso, che parla con le note invece che con le parole. Ma il suo spirito resta lì, nei murales di Miano, nei sassofoni dei giovani che ancora provano a dire la verità attraverso la musica.

Foto di Riccardo Piccirillo