Mimmo Jodice, i corpi e il margine: un’estetica queer prima del queer
Mimmo Jodice ha costruito una poetica del corpo e dello spazio liminale che oggi parla anche alla sensibilità e all'immaginario queer.
Il 27 ottobre 2025 è morto a Napoli Mimmo Jodice, uno dei grandi maestri della fotografia italiana. Aveva 91 anni. Le principali testate d’arte e cultura lo hanno ricordato quale Maestro delle avanguardie che ha ridefinito il linguaggio del bianco e nero come campo di apparizioni: rovine, mare, città, corpi e relazioni tra passato e presente, nel segno di una dimensione temporale potentemente evocativa.
Negli anni Sessanta e Settanta, Mimmo Jodice ha lavorato a stretto contatto con artisti quali Andy Warhol e Robert Rauschenberg (figure centrali della scena culturale gay statunitense). Il suo archivio di ritratti e reportage restituisce una genealogia di reti e affinità che intercetta — in maniera più o meno diretta — un immaginario culturale fortemente influenzato dalla pratica e dall’estetica queer.
D’altronde lo sguardo dell’artista sul corpo, fin dalle sue prime mostre, è uno sguardo che sottrae il corpo da pratiche di “facile consumo”: il corpo non viene esibito, non è ridotto a spettacolo e questa postura anti-voyeuristica, per chi legge da una prospettiva LGBTQ+, acquista un valore politico prima ancora che estetico.
Ma l’obiettivo di Mimmo Jodice non ha esplorato solo il corpo umano, ma anche il corpo sociale e quello metropolitano: la Napoli di Jodice non è rumorosamente folklorisitca ma silenziosamente marginale e resiliente. Le sue immagini della città — che lui stesso, in una sua celebre serie, definiva un’archeologia del futuro — abitano interstizi geografici metafisici, liminali e sospesi consacrando una sorta di poetica delle soglie che, resistente a ogni canone definitorio, a ogni tentativo di cristallizzazione identitaria, rivela possibili e suggestive consonanze culturali con la sensibilità queer.
Questo non significa attribuire a Jodice un programma queer e/o LGBTQ+ ex post. Significa riconoscere affinità: la sua fotografia ha frequentato i margini, ha disinnescato il cliché del “documento” per farne memoria viva; ha intersecato comunità artistiche in cui la differenza — anche sessuale — era parte integrante dell’immaginario condiviso; ha trattato il corpo con pudore e forza, rifiutandone la reificazione consumistica.
Per chi lavora oggi sui corpi e sulle soggettività queer e LGBTQ+, le immagini di Jodice insegnano che la responsabilità dello sguardo è tutto: scegliere la prospettiva giusta e non violare l’immagine, fare in modo che l’immagine arrivi liberamente allo sguardo, uno sguardo delicato che non denuncia ma rivela con cura e delicatezza. Una lezione politica ancor prima che estetica. Ma anche una lezione innegabilmente queer.