Turchia, sette donne trans torturate a Istanbul: “Prese di mira solo perché esistiamo”
Mentre attiviste denunciano l'arresto e le violenze subite da sette donne nel quartiere Tarlabaşı, il regime di Erdoğan prepara un pacchetto di riforme giudiziarie che mira a criminalizzare l'esistenza stessa delle persone LGBTIAQ+.
Una nuova, brutale aggressione scuote il mondo LGBTQIA+ in Turchia. Sette donne trans sono state arrestate, picchiate e torturate dalla polizia la scorsa notte nel quartiere Tarlabaşı di Istanbul, un’area da tempo simbolo di resistenza per la comunità queer della metropoli. La denuncia arriva dal collettivo Trans Blok Istanbul ed è stata immediatamente rilanciata da KAOS GL, una delle più importanti e storiche organizzazioni per i diritti LGBTQIA+ nel paese, da anni nel mirino del regime.
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Secondo la ricostruzione degli attivisti, le donne sono state fermate intorno a mezzanotte senza alcuna apparente motivazione, “colpevoli soltanto di camminare per strada“. Caricate con la forza su un mezzo della polizia, sono state portate in commissariato e trattenute per tre ore. Durante la detenzione, sarebbero state sottoposte a violenze fisiche e torture: a una di loro è stato rotto il naso.
I video diffusi da Trans Blok sui social media mostrano scene caotiche, con agenti che strattonano e spingono a terra le donne, mentre si sentono urla di aiuto. “Le nostre compagne sono state prese di mira semplicemente per la loro presenza”, ha dichiarato il collettivo. “Le forze dell’ordine continuano a presentare l’esistenza delle persone trans negli spazi pubblici come un crimine. Non accettiamo la violenza della polizia, chiediamo giustizia, uguaglianza e libertà“.
Un attacco sistematico, non un caso isolato
L’episodio di Tarlabaşı non è un fulmine a ciel sereno, ma si inserisce in un clima di repressione e ostilità statale che il governo del presidente Recep Tayyip Erdoğan ha intensificato sistematicamente. Come denunciano da tempo le organizzazioni per i diritti umani, la Turchia è diventata uno dei luoghi più invivibili d’Europa per le persone queer.
Il rapporto Rainbow Index 2024 di ILGA Europe classifica la Turchia al 48° posto su 49 paesi europei per il rispetto dei diritti LGBTQIA+, superando solo l’Azerbaigian. I Pride di Istanbul e Ankara sono vietati da quasi un decennio (dal 2015) e ogni tentativo di manifestare pacificamente viene represso con arresti di massa, gas lacrimogeni e violenza indiscriminata.
L’aggressione di Tarlabaşı è, secondo gli attivisti, l’applicazione pratica di una retorica d’odio promossa ai massimi livelli. “Questi attacchi non sono isolati”, ha ribadito Trans Blok, “ma il risultato del patriarcato e delle politiche statali transfobiche. Nessuno di noi è libero finché nessuno di noi è al sicuro!”.
Il “Pacchetto Giudiziario” che criminalizza l’esistenza
L’attacco avviene in un momento politicamente cruciale. Il governo Erdoğan sta preparando l’undicesimo pacchetto di riforma giudiziaria, che, secondo diverse fughe di notizie e le denunce delle associazioni, contiene norme apertamente repressive modellate sulla legislazione russa contro la “propaganda LGBT“.
Amnesty International ha lanciato un allarme solo pochi giorni fa, parlando di “proposte trapelate che criminalizzerebbero le persone LGBTI” e che “non dovrebbero mai vedere la luce del giorno”. Secondo l’organizzazione, il pacchetto mirerebbe a introdurre nuovi articoli nel codice penale per punire l’esistenza stessa della comunità.
Le bozze citate dagli attivisti turchi e dalle ONG internazionali includono:
- Carcere da uno a tre anni per chi “promuove o incoraggia comportamenti contrari al proprio sesso biologico”.
- Pene fino a sette anni per i medici e i professionisti sanitari che eseguono procedure di affermazione di genere.
- L’innalzamento da 18 a 25 anni dell’età legale per accedere alla riassegnazione chirurgica.
- Pene detentive per le coppie gay che celebrano cerimonie di matrimonio o fidanzamento simboliche.
- Ampia censura di media, piattaforme online e contenuti artistici per “atti osceni” o “propaganda contro la moralità pubblica”.
Questa offensiva legislativa segue anni di retorica governativa incentrata sulla “difesa della famiglia e dei valori morali”, che ha identificato la comunità LGBTQIA+ come una “minaccia” e un “virus” sostenuto da “potenze straniere”.
La resistenza storica delle persone trans
Di fronte a questa persecuzione, la comunità turca ha costruito decenni di resistenza. Organizzazioni come Pembe Hayat (Vita Rosa), fondata ad Ankara nel 2006, sono nate proprio dalla necessità di difendere le persone trans, spesso lavoratrici del sesso, dalla violenza delle bande criminali e dalla complicità della polizia.
Come raccontato dalla fondatrice Buse Kilickaya, Pembe Hayat è nata perché “era necessario che fossero le persone trans a lottare per i loro diritti”. L’associazione, che prende il nome dal film Ma vie en rose, offre supporto legale, sociale e sanitario, e organizza il primo festival cinematografico queer in Turchia (KuirFest).
Secondo i dati di Transgender Europe, la Turchia detiene il tragico primato in Europa per numero di omicidi di persone trans. In questo contesto, il lavoro di associazioni come Pembe Hayat e KAOS GL non è solo advocacy, ma una vera e propria rete di sopravvivenza. La loro lotta ha portato a vittorie storiche, come il riconoscimento in tribunale che anche le persone trans possono essere vittime di crimini d’odio.
Oggi, quella stessa rete di resistenza si stringe attorno alle sette donne di Tarlabaşı, simbolo di una comunità che, anche sotto tortura, rifiuta di smettere di esistere.