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La GPA come grimaldello per screditare i Pride
In principio era l’attacco alle sfilate durante i Pride. “Ma come si vestono?”, “cos’è ‘sta carnevalata”, “perché devono girare nudi per le strade”, “che senso ha ai giorni nostri ancora una manifestazione del genere?”, “allora dovrebbero istituire anche l’etero-pride”.
Poi con il passar del tempo, con tanta pazienza, la comunità LGBT+ ha fatto informazione e spiegato il perché della necessità che esistano ancora i Pride. E allora si è trovato il nuovo modo di screditarli comunque con un’altra “argomentazione”: i Pride sostengono la gestazione per altri. Veramente il modo in cui viene chiamata non è questo, ma il molto meno tecnico e più suggestivo “utero in affitto”. È questa la motivazione con la quale, ultimo episodio in ordine di tempo, la Regione Lazio ha ritirato il patrocinio al Pride di Roma.
Un modo comodo per giustificare una scelta che non avrebbe più motivo di esistere nel 2023 ma che invece fa fare passi indietro di decenni. La politica, molto spesso di destra ma anche a sinistra qualcuno si è espresso contro, ha puntato il dito contro l’“utero in affitto” perché portatore di una pratica che andrebbe contro le donne e sfrutterebbe il loro corpo, in particolare di quelle meno abbienti. Un’ottima argomentazione per far scuotere la testa anche alle persone più progressiste perché nessuno vorrebbe mai che una donna povera venisse sfruttata per dare un bambino a una coppia omosessuale, magari anche facoltosa.
“Ma poi ci sono tanti di quei bambini orfani, perché non ne adottano uno?” è un’altra delle frasi che fa più presa anche nei talk show. Il gesto più subdolo è inoltre creare il binomio Gpa-omosessuali, un po’ come in passato è stato fatto con l’Aids, per sostenere che le rivendicazioni dei Pride siano solo il frutto di un gruppo di viziati che vuole arrendersi alle leggi della biologia. Un’ottima e meschina strategia comunicativa che la politica si è incaricata di utilizzare per strizzare l’occhio alle frange più oltranziste del proprio elettorale, la destra, e fare lo stesso con una parte del mondo femminista, la sinistra. Sul piatto come sempre vengono sacrificati i diritti in nome del consenso elettorale.
Ci sarebbero invece domande serie da porre alla politica tutta: perché i governi che si sono succeduti non hanno regolamentato, come è giusto che sia, la Gpa? Perché chi vuole accedere a questo che dovrebbe essere un diritto è costretto ad andare ancora all’estero? Perché non vengono realizzati dei protocolli che difendano e tutelino il corpo delle donne con serrati controlli e assistenza seria a chi vuole aderire a questa pratica?
In un Paese serio, una pratica come la Gpa sarebbe già stata regolamentata a norma di legge, solo così tutelando i soggetti più deboli ed evitando qualsiasi tentativo di mercimonio sul corpo delle donne. Non negando diritti, la cosa più semplice da fare, ma sottoponendo tutti gli aspetti della vita delle persone alla legge, cosa molto più difficile da far fare ai nostri politici. Perché la verità è una sola: la nostra politica non vuole la responsabilità di fare leggi e regolare il vivere comune perché questo significherebbe inevitabilmente scontentare una parte degli elettori. Allora l’ultima vera domanda è un’altra. Ma se non abbiamo un Parlamento che dà vita a leggi che migliorano la vita del Paese, possiamo ancora dirci in democrazia?
Vincenzo Sbrizzi